Negli ultimi giorni, la Cina ha lanciato un duro attacco contro le stablecoin, definendole una minaccia alla stabilità finanziaria globale e alla sovranità monetaria di economie più piccole rispetto alla stessa Cina o agli Stati Uniti. Il governatore della banca centrale cinese (PBoC), Pan Gongsheng, ha dichiarato che le stablecoin alimentano la speculazione, sfuggono ai controlli antiriciclaggio e possono facilitare flussi finanziari illeciti. Pechino ha ribadito la tolleranza zero verso le valute digitali private - vietate in Cina già dal 2017 - mentre promuove la propria CBDC (lo yuan digitale, e-CNY) come alternativa sicura sotto il controllo statale. Questo approccio rientra perfettamente nell’incubo orwelliano di un sistema finanziario totalmente tracciato e centralizzato dal governo cinese.
L’Ue sulla stessa traiettoria
L’Unione Europea dovrebbe tenersi lontana dalle politiche repressive cinesi, ma le analogie sono inquietanti. Bruxelles, pur con metodi più soft e graduali, sta di fatto seguendo la scia di Pechino: da un lato sta preparando l’euro digitale e dall’altro sta imponendo norme stringenti che disincentivano l’uso delle stablecoin private. Le motivazioni ufficiali riecheggiano quelle cinesi, seppur espresse in linguaggio tecnocratico: la BCE e la Commissione Europea citano la necessità di “preservare la sovranità monetaria” e la “stabilità finanziaria”, minacciate dall’ascesa di mezzi di pagamento digitali privati come le stablecoin ancorate a valute estere. Un recente documento ufficiale di Francoforte lo afferma chiaramente: l’euro digitale servirebbe a limitare la diffusione di stablecoin domestiche e straniere, la cui crescita sarebbe “altamente dirompente” per il sistema bancario e la trasmissione del credito.
Un alto funzionario BCE ha avvertito che la proliferazione di stablecoin in dollari potrebbe causare proprio una fuga di depositi in favore del sistema finanziario USA, minando il controllo dell’Europa sulla propria moneta. Insomma, la stessa minaccia paventata da Pan Gongsheng in Cina riecheggia nei corridoi di Francoforte e Bruxelles: i privati, siano essi Big Tech americane o emittenti di stablecoin, non devono spodestare la moneta statale.
Euro digitale e MiCA
In parallelo all’euro digitale, com’è noto, l’UE ha alzato un muro regolamentare nei confronti delle stablecoin attraverso il regolamento MiCA (Markets in Crypto-Assets). Pur senza vietarle esplicitamente, MiCA impone condizioni talmente onerose da scoraggiarne di fatto l’emissione e la diffusione su larga scala.
Uno dei requisiti più controversi riguarda le riserve obbligatorie a copertura delle stablecoin. MiCA richiede che gli emittenti di stablecoin mantengano riserve in asset altamente liquidi (contanti o depositi bancari a breve termine) pari al 100% del valore emesso, con vincoli di composizione molto rigidi. In particolare, almeno il 30% delle riserve deve essere depositato presso banche, percentuale che sale al 60% per le stablecoin “significative”.
Ciò significa che un grande emittente come Tether, per operare legalmente in UE, dovrebbe tenere la maggior parte delle sue riserve in depositi bancari europei assicurati. Questa regola – pensata per garantire liquidità e proteggere gli utenti – ha però effetti collaterali pericolosi: lega strettamente le stablecoin al fragile sistema bancario. In caso di crisi o dissesti bancari, le riserve delle stablecoin rischiano di evaporare oltre le soglie coperte da garanzia statale, innescando potenziali corse agli sportelli. Inoltre, obbligare a depositi cash (che fruttano tassi esigui) limita i rendimenti che gli emittenti potrebbero ottenere investendo in titoli a breve termine più sicuri (come i Treasury USA), mettendo a rischio la sostenibilità del modello di business delle stablecoin.
Secondo Paolo Ardoino, Ceo di Tether, costringere gli operatori a depositare il 60% delle riserve in banche UE potrebbe addirittura destabilizzare queste ultime (“le banche della regione potrebbero fallire nei prossimi anni grazie a questo requisito” ha avvertito. Tether ha infatti scelto di non richiedere la licenza MiCA per USDT, rinunciando di fatto al mercato europeo, proprio perché giudica insostenibili tali obblighi regolamentari.
Parallelamente, la BCE spinge sull’euro digitale anche con argomenti meno tecnici e più ideologici: garantire che la moneta resti un “bene pubblico” nell’era digitale, anziché lasciare spazio a soluzioni private. Nei fatti, l’approccio UE si traduce in un forte disincentivo verso l’uso di strumenti privati.
Lo yuan digitale è esplicitamente concepito anche come mezzo di controllo sociale. L’Europa, se pubblicamente vuole apparire più democratica e liberale, nei fatti sta adottando lo stesso approccio. Ardoino non ha usato mezzi termini nel definire l’euro digitale: “Un modo per controllare le persone e come spendono i propri soldi”.
Vi parlo da bitcoiner, cari lettori. Vi parlo, di conseguenza, da un approccio profondamente libertario. Pur considerando evidentemente qualunque stablecoin una shitcoin senza se e senza ma, va riconosciuto che si tratta di beni emergenti dal mercato privato e che, di conseguenza, non andrebbero banditi da un monopolista pubblico. Criticati, anche aspramente, certo, ma non banditi a prescindere, altrimenti non saremmo diversi da un qualsiasi collettivista autoritario.
Schiacciare le stablecoin sotto il peso di regolamentazioni draconiane mentre si spiana la strada a una CBDC, significa abbracciare una visione orwelliana in cui lo Stato (o la sovrastruttura europea) conosce e controlla ogni transazione. È lo stesso incubo che si realizza in Cina, solo avvolto in una confezione apparentemente più liberale e ritardato di qualche anno.
Un articolo interessante di bitcoin train di
@Federico Rivi